Le tradizionali interrogazioni sul tempo danno per scontato un qualcosa che scontato non è: la legittimità stessa di tali interrogazioni. Il tempo rinvia a dimensioni “soggettive”, “oggettive”, “assolute”, “relative”, ad un loro e- ventuale coesistere o a nessuna di esse? Oppure “tempo” è solo parola e immagine, solo “matematica finzione” utile a non naufragare nella quotidiana esperienza? Ed anche l’ ulteriore prospettiva di un tempo ricondotto ad evanescenza di istanti in inarrestabile successione non lascia forse in ombra il significato ontologico al quale “evanescenza” etimologicamente rinvia? Nei confronti del tempo il sapere è sempre accompagnato da un insormontabile senso di sottile inquietudine, da una percezione di inafferrabilità ed ineffabilità, da un sentimento di sospensione rispetto a quel che ordinariamente si chiama realtà e che al soggetto si presenta in forme solidissime e tangibili. In definitiva si sa di non-sapere se sia possibile una domanda intorno ad un oggetto che forse c’è e forse non c’è, dal momento che è proprio un tale esserci o meno, un tale spaesante ed incerto sapere di non-sapere l’oggetto, ciò che denota quella domanda medesima. E se il tempo non fosse che convenzione ed immagine, funzione e strumento, di cui forse neppure vale troppo la pena occuparsi? Probabilmente dovremmo rivolgere l’attenzione ad un insondato originario che abbia in sé valenza fondamentale. Allo spazio, ad esempio, come scaturigine di ogni esistenza, di ogni esperienza, di ogni domanda e, dunque, del tempo stesso. In questo lavoro, probabilmente il più denso e il più teoreticamente complesso dell’Autore, il tempo viene giuocato su registri differenti (individuali, esistenziali, epocali) che ne restituiscono la valenza di realtà e di sospensione, di finzione e di imprescindibile “solidità”.