Con il neologismo di stranierità, l’autrice intende sottolineare la situazione dell’essere stranieri propria dell’uomo contemporaneo. E ciò non soltanto sotto il profilo, potentemente evocativo, dell’immagine metaforica a cui con quel termine si può rimandare, ma anche, in prima istanza, sotto un profilo pratico, reale, mondano. Stranierità significa ripensare l’alterità e, insieme ad essa, fare nuovamente i conti con la filosofia quale «disciplina di frontiera», il cui compito è il tentativo costante di trasgredire i confini del suo stesso territorio. La migrazione, intellettuale e geografica, l’essere sempre e comunque stranieri, è esposizione e metamorfosi al contempo, strumento potenzialmente rivoluzionario, cesura nella ovvietà della vita quotidiana. Attraverso una originale rilettura di alcune categorie del pensiero di Heidegger e di Blumenberg, Manuela Verduci definisce la trama argomentativa con cui costruisce quell’idea di stranierità come «dispositivo del cominciamento», «feconda fonte di irrequietezza» e dunque esigenza di libertà.