«La musica agisce, non ricorda; porta con sé le note passate senza fermarsi a ricordarle, altrimenti sarebbe la sua morte. L’amore è come la musica, ignora la parola arrestarsi».
In Jankélévitch l’esperienza della musica diventa apprendistato del tempo, e il tempo altro non è che “morale in atto”. Lo spessore polifonico della coscienza trova nella irreversibilità temporale il fondamento di ogni valore etico, che sempre vive nella oscillazione tra istante e intervallo, secondo un’acrobazia temporale continua, in cui il passato è abitudine tutta sonora, gioco ininterrotto, frase musicale che deve proseguire.
Grazie a Jankélévitch è possibile mettersi in ascolto della temporalità della musica sulle note di Beethoven, Debussy e Ravel, e profilare un’etica del fare incurante delle circostanze e dei motivi psicologici e sociali di una certa azione. Solo l’andatura e lo charme di un atto morale regolano l’armonia di tale azione con l’oscillazione vibratoria del reale e dei suoni: la nostra vita morale oscilla continuamente tra il compiacimento della cattiva coscienza (con i suoi pensieri retrospettivi e postumi rimpianti) e l’innocenza della musica. Un’apparenza senza interiorità a cui deve ispirarsi l’agire stesso.